Il nuovo decreto sugli studi no-profit: la cessione dei risultati è ora possibile

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Questo articolo è stato pubblicato il 17 marzo 2022 su AboutPharma.com, all’interno della nostra rubrica “Sperimentazioni cliniche: cambiano le regole”.

Con oltre due anni di ritardo rispetto a quanto previsto, il 16 febbraio 2022, è stato finalmente pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto ministeriale del 30 novembre 2021, recante misure volte a facilitare e sostenere la realizzazione degli studi clinici di medicinali senza scopo di lucro e degli studi osservazionali e a disciplinare la cessione di dati e risultati di sperimentazioni senza scopo di lucro a fini registrativi. Il decreto è entrato in vigore il 3 marzo 2022.

Tale decreto, particolarmente atteso dagli operatori del settore che si trovavano a fare i conti con una normativa oramai piuttosto datata e soprattutto inadeguata a regolare e valorizzare le potenzialità della ricerca italiana, nell’ambito della collaborazione tra pubblico e privato, rappresenta sicuramente un importante passo avanti, anche se sono ancora tanti gli interrogativi e le lacune rispetto agli ambiziosi obiettivi che la legge demandava a tale provvedimento. Ma facciamo un passo indietro per avere un po’ di contesto.

Il contesto di riferimento

Fino all’entrata in vigore di questo decreto, la ricerca no-profit in Italia era regolata dal decreto ministeriale del 17 dicembre 2004, che vietava un possibile utilizzo a scopo registrativo/commerciale dei dati e risultati che fossero emersi da una ricerca condotta da un ente senza scopo di lucro. Neppure la condivisione di questi dati con soggetti privati era consentita, neanche laddove tali privati avessero a vario modo finanziato la ricerca (ad esempio stanziando fondi, fornendo i farmaci, etc.).

In questo contesto, il d.lgs. 52/2019, di attuazione della legge Lorenzin n. 3/2018, aveva introdotto per la prima volta la possibilità di cessione dei dati e risultati di sperimentazioni cliniche senza scopo di lucro a scopo registrativo, a condizione che il cessionario rimborsasse all’ente no-profit che aveva realizzato lo studio (i) le spese dirette e indirette connesse alla sperimentazione, nonché (ii) le tariffe che si applicano agli studi a scopo di lucro (originariamente non applicate in quanto no-profit), e (iii) “le potenziali entrate derivanti dalla  valorizzazione  della  proprietà intellettuale”. Il d.lgs. 52/2019 precisava che le modalità di cessione di questi dati e della loro utilizzazione a fini di registrazione dovessero essere stabilite con un decreto ministeriale da emanarsi entro il 31 ottobre 2019.

Seppure il d.lgs. n. 52/2019 sancisse già in maniera chiara il principio per cui “è consentita la cessione dei relativi dati nonché dei risultati della sperimentazione (senza scopo di lucro) a fini registrativi”, la mancata emanazione del decreto attuativo aveva di fatto paralizzato l’applicazione di questa norma, in quanto non era chiaro, da un punto di vista operativo, quale procedura dovesse essere seguita per la cessione dei dati/risultati e soprattutto quali criteri dovessero essere utilizzati per calcolare “le spese dirette e indirette connesse alla sperimentazione” e “le potenziali entrate derivanti dalla  valorizzazione  della  proprietà intellettuale”.  Per questa ragione, dal maggio 2019 al marzo 2022, la norma sulla cessione dei dati a fini registrativi è rimasta lettera morta.

Inoltre, ai sensi del d.lgs. n. 52/2019, il medesimo decreto attuativo avrebbe altresì dovuto stabilire misure volte a: (i) facilitare e sostenere la  realizzazione  degli  studi clinici senza scopo di lucro e degli studi  osservazionali, (ii) individuare le modalità di coordinamento tra i promotori, pubblici e privati, nell’ambito della medesima sperimentazione clinica o  studio clinico,  anche  al  fine  di  acquisire   informazioni   a   seguito dell’immissione in commercio dei medicinali e (iii) introdurre criteri per identificare le tipologie e i requisiti delle sperimentazioni senza scopo di lucro e le  sperimentazioni  con collaborazione  tra promotori  pubblici  e  privati.

Dunque, erano molte e complesse le questioni che questo decreto avrebbe dovuto affrontare e alte, di conseguenza, le aspettative degli operatori del settore. È quindi inevitabile che la lettura del testo finalmente varato dal Governo abbia suscitato una certa delusione rispetto ad alcuni temi non toccati oppure non adeguatamente regolati (ad esempio in relazione alla disciplina degli studi osservazionali o della co-sponsorizzazione pubblico-privato).

Di seguito affronteremo la questione della cessione dei dati ai fini registrativi, ma sono davvero tanti gli aspetti da analizzare del nuovo decreto, che saranno trattati nei prossimi articoli di questa Rubrica.

Le modalità di cessione dei dati/risultati delle ricerche no-profit

In primo luogo, chiariamo che il nuovo decreto abroga espressamente e quindi va a sostituire il procedente DM del 17 dicembre 2004. Non ci sono sostanziali cambiamenti sulla definizione e i requisiti delle sperimentazioni no-profit, per cui per il momento non ci soffermeremo su questo aspetto.

Si osserva soltanto che, in passato, il DM 17 dicembre 2004 è stato ampiamente utilizzato anche per disciplinare studi pre-clinici (quindi non interventistici) oppure per indagini cliniche con dispositivi medici, in assenza di una normativa ad hoc. Pertanto, nonostante il campo di applicazione del nuovo decreto e, in particolare, della norma sulle cessioni dei dati, si riferisca a sperimentazioni cliniche interventistiche (includendo quelle a basso livello di intervento) con farmaci, questo provvedimento rappresenterà certamente il parametro per disciplinare in via analogica anche studi no-profit di diverse tipologie.

Venendo alle specifiche modalità di cessione dei dati/risultati di una ricerca no-profit, il nuovo decreto prevede che:

  • la cessione può avvenire sia in corso di sperimentazione, sia a sperimentazione conclusa; nel primo caso, da quanto si può comprendere, occorre procedere con un emendamento sostanziale di cambio promotore (dall’ente no-profit al cessionario);
  • nei casi in cui la cessione dei dati e/o risultati avvenga per una loro utilizzazione a fini di registrazione di uno o più medicinali, in Italia o in un diverso Stato, è fatto obbligo al promotore o al cessionario di sostenere e rimborsare tutte le spese dirette e indirette connesse alla sperimentazione e di corrispondere le relative tariffe di competenza dell’Aifa e dei Comitati etici competenti;
  • qualora sia riscontrata l’utilizzabilità dei dati e risultati a fini registrativi, il promotore della sperimentazione senza scopo di lucro e il soggetto interessato a divenire cessionario dei dati e risultati  individuano  di  comune accordo  un  soggetto  esperto  di  consulenza  brevettuale  iscritto all’Albo consulenti in proprietà industriale abilitati o all’Albo  degli avvocati, il quale provvederà a una stima del valore del bene da trasferire nella prospettiva del suo sfruttamento commerciale atteso; laddove intenda procedere all’acquisto, il cessionario non potrà discostarsi dal valore identificato dal perito;
  • la cessione dei dati deve essere regolata mediante un contratto tra il promotore e il cessionario. Il promotore deve trasmettere  all’Aifa,  al Comitato etico competente e ai centri  di  sperimentazione  coinvolti una comunicazione ufficiale con la quale informa dell’avvenuta cessione dei dati e/o risultati, allegando (i) copia del contratto di cessione; (ii) attestazione del versamento delle tariffe menzionate in precedenza, nonché (iii) rendicontazione dei costi relativi ai medicinali, all’assistenza ospedaliera, alle indagini diagnostiche ed alle spese di personale a carico del Servizio sanitario nazionale rimborsati dal cessionario e (iv) copia del contratto di assicurazione.

Alcuni dubbi applicativi

Se questa è la procedura prevista dal decreto, sono numerose le domande e i punti aperti. Ad esempio:

  • ci si domanda quali criteri debba utilizzate il perito per calcolare la somma che deve essere corrisposta a titolo di valorizzazione della proprietà intellettuale: in una fase preliminare di sviluppo di un medicinale, sembra un esercizio molto difficile, senza contare che né i consulenti brevettuali né gli avvocati hanno tendenzialmente esperienza in relazione alla determinazione del potenziale valore commerciale dei risultati di una ricerca;
  • inoltre, l’avvio delle procedure per la stima del valore del bene è previsto “qualora sia riscontrata l’utilizzabilità dei dati e risultati a fini registrativi”, come se non fosse sempre necessaria, ma solo laddove fosse previamente riscontrata l’utilizzabilità dei dati a fini registrativi, anche se non è chiaro se e come debba avvenire tale valutazione;
  • non sono chiare le modalità di calcolo dei costi da rimborsare agli enti no-profit, soprattutto come quantificare il valore di determinate attività svolte dai ricercatori che non rientrano nei tariffari regionali delle prestazioni sanitarie;
  • è poi previsto che uno studio possa essere trasformato da no-profit a scopo di lucro dallo stesso promotore, anche in quel caso dovendo rimborsare tutte le spese dirette e indirette connesse alla sperimentazione, nonché corrispondere le relative tariffe di competenza dell’Aifa e dei comitati etici e rimborsare i finanziamenti fino a quel momento ricevuti: questa previsione sembra regolare l’ipotesi di conversione di uno studio finalizzata ad un utilizzo profit dei dati, diverso dalla loro cessione a fini registrativi, anche se il suo esatto campo di applicazione non è precisato.

Cessione dei dati e consenso informato

Un tema che brilla per la sua assenza nel nuovo decreto è quello del consenso informato e del trattamento dei dati personali dei partecipanti alla ricerca in caso di cessione di dati a soggetti terzi.

L’unica previsione a riguardo contenuta nel decreto è quella che specifica che, a seguito della cessione, il cessionario subentra a tutti gli effetti nella titolarità del trattamento dei dati personali correlati alla sperimentazione. Nulla si dice però in relazione ai requisiti e alle condizioni di quella cessione.

Il primo profilo che merita attenzione è il seguente: il consenso informato originariamente raccolto dai partecipanti a una sperimentazione no-profit è idoneo a legittimare l’utilizzo di quei dati per uno scopo commerciale? Per gestire anticipatamente questa potenziale criticità, immaginiamo che gli enti no-profit includeranno nei moduli di consenso informato la previsione del possibile utilizzo dei dati anche per finalità commerciali, inclusa la cessione a terzi interessati ad impiegarli a fini registrativi. Del resto, questa formula è già utilizzata in alcuni modelli, per coprire l’eventualità della conversione di uno studio no-profit in profit da parte dello stesso promotore: operazione che, seppure finora non sia stata espressamente disciplinata a livello normativo, risulta essere già stata compiuta in alcuni sporadici casi.

Consenso a un uso ulteriore dei dati personali?

Dal punto di vista del trattamento dei dati personali, la situazione è ancora più complessa, perché molte sono le variabili da tenere in considerazione in caso di cessione di dati a terzi. Naturalmente, questo problema non si porrebbe nel caso di cessione dei meri risultati, ossia di dati già oggetto di rielaborazione, che non includono in nessun modo dati personali (i.e., dati pseudo-anonimizzati che restano da ultimo ancora riferibili a soggetti identificabili). Dato però che questa ipotesi sembra piuttosto residuale per l’importanza del dato personale in questi tipi di ricerca, il tema della gestione del dato risulta più che mai cruciale in questo contesto.

Come sappiamo, il grande ostacolo che si incontra nel nostro ordinamento è che il riutilizzo di dati personali, anche se a scopo di ricerca, richiede sempre il consenso degli interessati (salve ipotesi eccezionali). Ciò che non sarebbe necessario in base al GDPR è invece ancora obbligatorio in Italia, ai sensi del Codice della privacy, come modificato nel 2018. Eccezioni a questo obbligo sono possibili solo a determinate condizioni e con l’autorizzazione del Garante della privacy (come previsto dall’articolo 110-bis del Codice Privacy, che disciplina la cessione di dati a terzi per finalità di ricerca scientifica e prevede l’adozione di misure per la minimizzazione del trattamento quali l’anonimizzazione).

E il consenso, come sappiamo, deve essere specifico, ossia non può essere rilasciato per studi futuri, non ben identificati, che saranno condotti da terzi non determinati con modalità e mezzi non specificati. In altre parole, non può essere un consenso in bianco. Da qui la necessità di trovare un compromesso per consentire ai promotori di studi no-profit di raccogliere dai partecipanti un consenso che sia valido per una futura eventuale cessione dei loro dati a terzi, laddove non siano ancora conosciuti (né conoscibili) i termini di tale eventuale cessione. L’alternativa di dover ricontattare nuovamente tutti i partecipanti per ottenere un nuovo consenso finirebbe col paralizzare nuovamente l’operatività della norma.

Sul punto si auspica che intervengano indicazioni concrete a livello normativo o da parte del Garante della privacy, con l’obiettivo di semplificare la ricerca e la collaborazione tra pubblico e privato. Del resto, su una questione collegata, lo stesso decreto legislativo n. 52/2019 ha posto l’obiettivo di favorire l’utilizzo a scopo di ricerca clinica di materiale biologico o clinico residuo da precedenti attività diagnostiche o terapeutiche o a qualunque altro titolo detenuto dalle strutture di ricerca, demandando all’Istituto superiore di sanità l’emanazione di atti di indirizzo per l’individuazione di criteri per l’utilizzo dei campioni biologici, tenendo conto delle modalità di accesso e di acquisizione del consenso del paziente all’uso successivo del campione prelevato (atti di indirizzo che non hanno ancora visto la luce).

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