Telemedicina: ecco quali strutture devono avere la licenza regionale

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Questo articolo è stato pubblicato il 18 Marzo 2020 su AgendaDigitale.eu, all’interno della nostra rubrica Legal Health.

La Corte di Cassazione, in un giudizio penale, ha recentemente fornito alcune interessanti indicazioni sulle condizioni necessarie per svolgere servizi di telemedicina secondo la normativa applicabile (Cassazione penale sez. III – 20/06/2019, n. 38485).

In particolare, ha chiarito quali attività, nel contesto della telemedicina, devono essere qualificate come servizi sanitari che richiedono, pertanto, l’autorizzazione regionale preventiva e quali, invece, non rientrano in tale categoria e sono quindi “libere”.

Il caso esaminato: la struttura sanitaria nel centro commerciale

Nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione, i NAS di Roma avevano effettuato una ispezione presso una struttura temporanea in un centro commerciale, accertando la presenza all’interno di essa di apparecchiature diagnostiche (poi oggetto di sequestro) nonché di una infermiera, che aveva il compito di accogliere i pazienti che intendevano sottoporsi ad accertamenti clinici, raccogliere il loro consenso informato, inserire i loro dati in un sistema informatico, trasmettere i dati ottenuti attraverso l’accertamento strumentale ad altro studio medico, ubicato altrove, ricevere il referto che veniva ivi redatto da personale medico e consegnarlo ai pazienti, quindi ricevere il pagamento della prestazione.

L’autorità giudiziaria, ritenuti sussistenti gli elementi di cui all’art. 193 del Regio Decreto n. 1265 del 27 luglio 1934 (di seguito “TULS”), in quanto il centro era stato attivato in assenza di autorizzazione, aveva proceduto al sequestro delle attrezzature in questione. L’indagata si è quindi rivolta al giudice del riesame che, nel rigettare il ricorso contro il provvedimento di sequestro, aveva osservato che, anche in caso di telemedicina, caratterizzata dall’utilizzo di tecnologie innovative che consentono che la prestazione sanitaria sia erogata pur essendo il paziente ed il medico ubicati in località diverse, il centro erogatore del servizio deve essere dotato della apposita autorizzazione regionale.

La Corte di cassazione, ribaltando la valutazione del Tribunale del riesame, ha annullato l’ordinanza ritenendo non sussistente il fumus del reato contestato. La Corte ha chiarito che l’autorizzazione richiesta dall’art. 193 del TULS deve considerarsi necessaria solo nei casi in cui vengano prestati servizi sanitari. Nel caso di specie, invece, secondo la valutazione della Cassazione, non veniva fornito nessun servizio di tipo sanitario. Nel centro, infatti, veniva effettuata, attraverso l’intervento di un’infermiera, una mera raccolta e trasmissione dei dati dei pazienti, attività priva di valore medico poiché l’infermiera operava con dispositivi di autodiagnosi non invasivi che possono essere utilizzati autonomamente dai pazienti.

L’effettivo servizio sanitario consisteva nell’attività di elaborazione e diagnosi dei dati, svolta dallo staff medico della clinica – debitamente autorizzata – a cui la struttura temporanea trasmetteva i dati.

La normativa di riferimento e l’interpretazione della Corte

Il reato contestato nel procedimento penale è quello previsto dall’art. 193 del Regio Decreto n. 1265 del TULS, che vieta di aprire o mantenere in esercizio ambulatori, case o istituti di cura medico-chirurgica o di assistenza ostetrica, gabinetti di analisi per il pubblico a scopo di accertamento diagnostico, case o pensioni per gestanti, senza speciale autorizzazione. La sanzione prevista per il contravventore è l’arresto fino a due mesi o l’ammenda da 516 a 1032 euro.

L’autorizzazione è oggi quella che deve essere rilasciata dalla Regione competente, ai sensi del decreto legislativo n. 502/1992 in base al quale la realizzazione di strutture sanitarie e l’esercizio di attività sanitarie sono subordinate al rilascio di specifiche autorizzazioni, che presuppongono il possesso dei requisiti minimi, strutturali, tecnologici e organizzativi stabiliti dalla legge. Tali requisiti e le procedure specifiche per ottenere le autorizzazioni sono poi disciplinati a livello regionale.

Tale autorizzazione è necessaria per qualsiasi struttura avente una finalità imprenditoriale e non meramente libero professionale.

È interessante notare che la normativa utilizzata in questo caso come parametro di liceità dell’attività di telemedicina è un regio decreto del 1934. Questa circostanza è ben esemplificativa delle difficoltà del diritto a gestire e regolare le nuove modalità con cui i servizi più tradizionali, come quello sanitario, operano oggi grazie all’ausilio delle nuove tecnologie.

In assenza dunque di norme specifiche che regolamentino questi servizi, ben vengano sforzi interpretativi come questo effettuato dalla Corte di Cassazione che adatta una norma assai datata a un’attività nuova tecnologicamente avanzata fornendo criteri per valutare la liceità della stessa.

In cosa consiste l’attività sanitaria?

In particolare, la Corte ha interpretato in questo caso il concetto di “attività sanitaria” calandolo nel contesto della telemedicina e affermando che perché vi sia “attività sanitaria” è necessario che “all’interno della struttura siano compiuti atti aventi una rilevanza medica, sebbene non necessariamente a contenuto immediatamente terapeutico, quali, ad esempio, gli atti comportanti una valutazione diagnostica di elementi acquisiti in via diretta o attraverso strumenti di vario genere (Corte di cassazione, Sezione 3^ penale 25 maggio 2007, n. 20474)”

Ad esempio, sono prestazioni “tipicamente sanitarie”, a titolo puramente esemplificativo, “quelle relative alla somministrazione di farmaci, ovvero alla assistenza medica ed infermieristica, oppure relative alla medicina estetica e dermatologica (Corte di cassazione, Sezione 3^ penale, 5 giugno 2007, n. 21806) ovvero odontoiatrica (Corte di cassazione, Sezione 3^ penale, 12 giugno 2007, n. 22875)”.

Al contrario, ha affermato la Corte, non possono qualificarsi come atti aventi una rilevanza medica “né gli atti il cui svolgimento è scevro da una qualsivoglia attività organizzativa né gli atti nei quali è lo stesso paziente ad acquisire i dati anamnestici che, eventualmente, egli successivamente trasferirà al personale sanitario (si immagini la rilevazione operata dallo stesso soggetto interessato della propria temperatura corporea ovvero del peso o della pressione arteriosa, sistolica e diastolica), tramite l’utilizzo di strumenti comunemente detti di autodiagnosi (cfr. Corte di cassazione, Sezione 3^ penale, 5 febbraio 1998, n. 1345)”.

Queste precisazioni aiutano a individuare, in caso di servizi resi online, il luogo in cui la prestazione sanitaria è effettuata e, dunque, i requisiti a cui deve essere sottoposta, chiarendo al tempo stesso i ruoli delle eventuali figure di supporto in questo processo (ad esempio, nel caso qui in esame, l’infermiera che riceve il paziente e lo aiuta nella fase di raccolta e trasmissione dei dati).

Indicazioni utili sui requisiti di liceità dei servizi di telemedicina

In conclusione, da questa pronuncia della Corte di Cassazione si possono trarre i seguenti principi applicabili alla telemedicina:

  • solo il soggetto che svolge effettivamente un’attività sanitaria deve ottenere l’autorizzazione preventiva dalla Regione competente ai sensi dell’art. 193 del TULS e della normativa nazionale e regionale di riferimento;
  • svolgere un’attività sanitaria significa svolgere attività aventi una rilevanza medica nel senso indicato in precedenza; e pertanto
  • il soggetto che si limita a raccogliere e trasmettere dati raccolti mediante strumenti di autodiagnosi non invasivi, fornendo un semplice supporto logistico e pratico ai pazienti, non fornisce alcun servizio sanitario e, pertanto, la relativa struttura dove tale attività viene svolta non è soggetta all’ottenimento di alcuna autorizzazione preventiva.

Articolo inserito in: AgendaDigitale, Life Sciences
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