Caso Bărbulescu v. Romania: la Corte EDU torna sul tema del bilanciamento del potere di controllo del datore di lavoro e il rispetto della vita privata del lavoratore

Con sentenza depositata il 5 settembre 2017, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo (“Corte EDU”) ha ribaltato le conclusioni della Camera in relazione al caso Bărbulescu c. Romania (n. 61496/08), stabilendo la legittimità del monitoraggio delle e-mail dei dipendenti da parte del datore di lavoro, inviate da computer aziendali per finalità personali, solo nel rispetto di specifici parametri, quali un’informazione preventiva, l’impossibilità di ricorrere a misure meno intrusive, l’esistenza di gravi motivi che legittimino il controllo.

La controversia origina dalle domande di Bogdan Mihai Bărbulescu, ingegnere di una società privata rumena, in seguito al licenziamento deciso dal datore di lavoro per aver utilizzato l’account di posta aziendale, creato per rispondere ai quesiti dei clienti, per fini personali durante l’orario di lavoro. Di fronte a tale provvedimento, il lavoratore aveva contestato il comportamento del datore di lavoro, ritenuto in contrasto con il diritto alla riservatezza della corrispondenza tutelato dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Dopo che i tribunali nazionali, chiamati a dirimere la controversia, hanno dato ragione al datore di lavoro in ogni grado di giudizio, il lavoratore si è rivolto ai giudici di Strasburgo, con esito negativo. La Corte, con sentenza del 12 gennaio 2016, aveva infatti ritenuto l’accesso del datore di lavoro alla corrispondenza elettronica del suo lavoratore, trasmessa attraverso l’account aziendale per finalità private, non in contrasto con il diritto alla vita privata garantito dall’art. 8 della Convenzione.

La vicenda, tuttavia, non si è conclusa con tale pronuncia, ma è giunta sino alla Grande Camera della Corte, che ha rovesciato l’esito di tale sentenza, dando ragione a Bărbulescu e condannando la Romania. Le Corti nazionali, infatti, non hanno assicurato un’adeguata protezione della vita privata e della corrispondenza del lavoratore, violando l’art. 8 della Convenzione.

Nel proprio ragionamento, la Grande Camera ha enfatizzato in via preliminare che la nozione di “vita privata” prevista dalla Convenzione deve intendersi secondo una portata di ampio raggio. La “vita privata” non può essere limitata alla sola sfera personale dell’individuo, ma deve includere ogni aspetto che permetta lo sviluppo della propria identità sociale, incluse le attività professionali. È proprio durante l’attività professionale che la maggior parte delle persone può sviluppare relazioni con il mondo esterno, quindi le conversazioni e gli scambi di email che hanno origine dagli uffici rientrano nella sfera di protezione dell’art.8 della Convenzione.

Tanto chiarito, la Grande Camera ha sottolineato la necessità di raggiungere un giusto equilibrio tra diritto al rispetto della vita privata del lavoratore e interesse del datore di lavoro al buon funzionamento dell’azienda e al rispetto dei doveri professionali da parte dei dipendenti. Alcune limitazioni possono essere necessarie, ma non è possibile comprimere del tutto la vita privata in un luogo di lavoro.

Ferma restando la discrezionalità degli Stati membri di valutare la necessità di istituire un quadro normativo che disciplini le condizioni in base alle quali un datore di lavoro può monitorare le comunicazioni elettroniche e non di natura personale dei propri dipendenti nel luogo di lavoro, tale discrezionalità non può essere illimitata. Le autorità nazionali, che sono soggette a obblighi positivi, devono garantire che il monitoraggio della corrispondenza da parte del datore di lavoro, indipendentemente dall’entità e dalla durata dello stesso, sia accompagnato da adeguate e sufficienti garanzie contro gli abusi. La Grande Camera ritiene, infatti, essenziale il rispetto di garanzie procedurali e del principio di proporzionalità. In questo contesto, le autorità nazionali dovrebbero considerare rilevanti i seguenti presupposti:

  • il lavoratore deve essere informato preventivamente e in modo chiaro sulla possibilità che il datore di lavoro possa monitorare la corrispondenza e altre comunicazioni e sulla natura di tale controllo;
  • una valutazione del grado e dell’ampiezza dell’intrusione, tenendo conto del tempo e del numero di soggetti che hanno avuto accesso ai contenuti;
  • l’esistenza di fondati motivi che legittimino il controllo delle comunicazioni e l’accesso al loro contenuto, dal momento che per sua natura tale processo ha natura invasiva;
  • la possibilità di istituire un sistema di monitoraggio meno intrusivo, valutando, caso per caso, se l’obiettivo perseguito dal datore di lavoro possa essere raggiunto senza accedere direttamente al contenuto completo delle comunicazioni del lavoratore;
  • le conseguenze del monitoraggio del lavoratore e dell’utilizzo da parte del datore di lavoro dei risultati dell’operazione di controllo;
  • l’esistenza di adeguate garanzie per il lavoratore, volte ad assicurare che il datore di lavoro non possa accedere al contenuto effettivo delle comunicazioni in questione, a meno che il lavoratore non sia stato informato preventivamente di tale eventualità.

Resta in ogni caso fermo il diritto del lavoratore, le cui comunicazioni siano state monitorate, di ricorrere in sede giurisdizionale per verificare il rispetto dei criteri ora ricordati e la legittimità delle misure contestate.

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