Il controllo dei lavoratori nell’era di Facebook

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La prassi di avvalersi di post blu e cinguettii o di altre modalità di condivisione tipiche dei social network fatica a rimanere al di fuori del posto di lavoro e si ripercuote inevitabilmente sul rapporto tra il datore di lavoro e il lavoratore e, talvolta, anche su quello tra colleghi. Evidenza di ciò è data dall’aumento degli episodi in cui il “leggero” uso delle piattaforme sociali (e soprattutto di Facebook) ha determinato una serie di inconvenienti e, nei casi più gravi, persino la perdita del posto di lavoro.

La connessione tra il mondo del lavoro e il mondo Web 2.0 (costituito da social network, blog e simili) attira sempre più la discussione di esperti ed operatori del diritto che si trovano a dover gestire nuove problematiche che coinvolgono non solo il diritto del lavoro ma, ad “effetto domino”, anche altre branche del diritto e principalmente quella che si occupa della tutela della privacy. Da ciò scaturisce la nodosa interazione tra le disposizioni dello Statuto dei Lavoratori (la Legge n. 300/1970) e quelle del Codice Privacy (il Decreto Legislativo n. 196/2003).

La portata del Codice Privacy, tuttavia, è limitata (per esplicita esclusione dell’articolo 5) a quei casi in cui le informazioni personali non siano veicolate in rete tramite un “profilo pubblico” – collegato direttamente a motori di ricerca ad accesso universale e libero (ad es. Google, Bing, Yahoo, ecc.) – o tramite un “profilo parzialmente pubblico” – visitabile da una cerchia indeterminabile di soggetti, i cd. “amici di amici”. In entrambe le ipotesi, le informazioni personali circolano online come se raccontate in una pubblica piazza dai soggetti interessati e, quindi, nessuna legittima aspettativa di privacy può essere da questi avanzata.

La commistione tra le piattaforme sociali, il lavoro e la privacy emerge sin da prima della nascita del rapporto di lavoro: oggi tutte le aziende  di recruiting e gli head-hunter si servono di sistemi di contatti online (tra cui LinkedIn) per reperire informazioni professionali sui candidati e, così, selezionare la risorsa più adatta al profilo promosso. E non è tutto! Sistematicamente, gli head-hunter si servono di social network “ludici” (tra cui, Facebook, Twitter, ecc.) per ottenere altre informazioni (personali, politiche, religiose, ecc.) sui candidati al fine costruire un’immagine precisa, ma non sempre veritiera, della risorsa individuata. In tale ottica i social network divengono strumenti di “spionaggio”, in contraddizione con l’articolo 8 dello Statuto dei Lavoratori che vieta al datore di lavoro di “effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”.

L’interferenza degli strumenti informatici in ambito lavorativo rileva anche nella fase di svolgimento del rapporto di lavoro, durante la quale i lavoratori possono commettere numerosissime infrazioni – con la conseguente applicazione di sanzioni disciplinari, compreso il licenziamento se il comportamento posto in essere è talmente grave da far venir meno la fiducia con il datore di lavoro – anche tramite internet.

Passibili di sanzioni sono, ad esempio, gli episodi in cui il dipendente esprime sulla propria bacheca valutazioni negative sui prodotti commercializzati dall’azienda, divulga informazioni riservate, fa commenti negativi contro il capo o altri superiori o appone i cd. “mi piace” a tali offese “postate” da colleghi, pubblica foto/video che dimostrano la non veridicità di sue assenze per malattia, ecc. Tali comportamenti assumono maggiore gravità in quanto realizzati in rete e, quindi, difronte ad una vastissima platea.

Oltre che in costanza di rapporto di lavoro, i datori di lavoro si espongono a potenziali violazioni sul web (o verificabili tramite web) anche nella fase di conclusione dello stesso, ad esempio, quando gli ex dipendenti divulgano sul web informazioni sui processi produttivi o sui prodotti dell’impresa (in violazione dell’obbligo di riservatezza) oppure svolgono attività – verificabili su LinkedIn o su altri canali professionali – presso imprese esercenti business concorrenti (in violazione di un eventuale patto di non concorrenza).

Una possibile, ma non efficace, soluzione alle problematiche sin qui sollevate potrebbe essere quella di vietare che il lavoratore utilizzi internet durante l’orario di lavoro per fini estranei all’attività lavorativa. E’ evidente come tale divieto, per quanto giuridicamente possibile, non eliminerebbe il rischio che il lavoratore commetta infrazioni a scapito dell’azienda in sedi non lavorative o, persino, sullo stesso luogo di lavoro tramite iPhone, laptop, Blackberry e altri mezzi di comunicazione personali.

Per tal motivo la via più giusta da seguire sembrerebbe non quella della “repressione” bensì quella della “sensibilizzazione” del dipendente al corretto uso di internet e dei social network mediante la predisposizione di regolamenti interni (o policy) che circostanzino le condotte scorrette e che diano un messaggio di responsabilità sulle scelte da effettuare in rete le quali, per la loro intrinseca immediatezza e per la falsa percezione di anonimato, vengono compiute (spesso con disastrose conseguenze) senza la dovuta attenzione.

Molte aziende già adottano policy contenenti la cd. lista “think before to share” in cui vengono dati al lavoratore suggerimenti su cosa e come pubblicare in rete e in cui vengono individuate le sanzioni applicabili se, appunto, il lavoratore “non pensa prima di pubblicare”. Al riguardo, occorre  tenere in conto che le policy non possono in alcun modo pretendere di guidare, limitare o addirittura sopprimere ciò che, ricollegandoci allo strumento sopraindicato, viene identificato con la parola “think”, ma che in termini giuridici corrisponde al diritto di critica del lavoratore.

Le policy sull’utilizzo di internet, pur non potendo dare una soluzione definitiva, costituiscono comunque un buon punto di partenza per arginare le problematiche analizzate che, come visto, non hanno ancora trovato risposte giuridiche condivise e convincenti.

Pubblicato su largoconsumo.info

Articolo inserito in: Diritto del Lavoro
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