Avviati i primi procedimenti antitrust per “intese verticali restrittive” nell’e-commerce

Lo scorso giugno 2017, la Commissione europea (o “Commissione”) ha aperto quattro distinte indagini nei confronti di grandi gruppi internazionali (es. Sanrio e Universal Studios) per supposte infrazioni delle regole della UE a tutela della concorrenza nel comparto del commercio online. In particolare, oggetto di indagine sono condizioni contrattuali di fornitura di prodotti o di licenza di marchi per il merchandise, predisposte dalle suddette imprese, che limitano la libertà dei loro distributori o licenziatari di vendere online al di fuori di determinati Stati membri o a determinati prezzi.

Contestualmente in Italia, il 6 giugno 2016, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (l’AGCM) seguendo l’esempio della Commissione ha avviato verso un produttore di stufe, caminetti e prodotti affini il suo primo procedimento per infrazione del divieto di imposizione dei prezzi di rivendita (cd Resale Price Maintenance) e di restrizioni alla libertà dei distributori di rivendere online.

In precedenza, nel febbraio 2017, la Commissione aveva annunciato l’apertura di tre distinte indagini riguardanti gli accordi tra (i) produttori e distributori di dispositivi elettronici di largo consumo, (ii) produttori e piattaforme di distribuzione online di video game e (iii) i maggiori tour operator e strutture alberghiere aventi ad oggetto, rispettivamente: (i) la restrizione della libertà del distributore di definire il prezzo di rivendita, anche attraverso l’uso di software per l’automatico aggiustamento del prezzo sulla base di quello dei maggiori concorrenti; (ii) l’utilizzo di tecniche di geo-blocking per impedire ai consumatori di acquistare i video giochi online e offline (tramite l’uso di activation keys) al di fuori del proprio territorio di residenza; e (iii) la discriminazione del prezzo di prenotazione e pernottamento sulla base del luogo di residenza del cliente.

Quali sono le regole antitrust più rilevanti per il commercio online?

L’art. 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (o TFUE) e l’art. 2 della legge 287/90 (la legge nazionale sulla concorrenza) vietano gli accordi e le intese tra imprese indipendenti (cioè non direttamente o indirettamente controllate dallo stesso soggetto) che hanno per oggetto o per effetto di restringere o falsare il genuino confronto concorrenziale.

Cosa si rischia e perché?

Tale divieto, la cui violazione comporta sanzioni fino al 10% del fatturato complessivo dell’impresa interessata, si applica sia ad accordi tra imprese direttamente concorrenti sullo stesso mercato (cd “intese orizzontali”) sia agli accordi tra imprese che operano su diversi livelli della produzione e della distribuzione (cd “intese verticali”). Mentre il divieto di intese orizzontali mira a proteggere la concorrenza inter-brand, cioè tra prodotti di marche diverse, il divieto di intese verticali mira anche a tutelare la concorrenza intra-brand, ovvero tra distributori di prodotti della stessa marca. In aggiunta, il diritto europeo della concorrenza mira a perseguire una sempre maggior integrazione dei mercati nazionali in un mercato unico europeo (il cd Single Market) in cui i consumatori e le imprese siano liberi di comprare e vendere prodotti e servizi da uno Stato membro all’altro, senza restrizioni o barriere artificiali che limito il commercio transfrontaliero (fisico o elettronico).

In quale contesto sono maturate le decisioni di avviare questi procedimenti?

Anche chi è meno esperto di diritto antitrust può comprendere e intuire che è vietato a due o più imprese concorrenti accordarsi sul prezzo di vendita dei loro rispettivi prodotti. Meno intuitivo è invece che sia vietato anche un accordo con cui, ad esempio, un produttore imponga ai suoi distributori un prezzo fisso o minimo di rivendita per i propri prodotti; limiti la libertà di fare sconti o di rivendere online, in assoluto o solo in certe aree geografiche della UE; o ancora imponga prezzi o altre condizioni differenziate a seconda dello Stato membro di residenza del cliente.

In effetti, fino a un paio di anni fa questi tipi di accordi, seppure da sempre vietati (come peraltro chiaramente illustrato in apposite comunicazioni della Commissione), non erano tuttavia mai stati formalmente perseguiti dalle autorità di concorrenza italiana o dalla Commissione europea[1].

Tuttavia, nel 2015, la crescente importanza del settore dell’e-commerce nell’economia europea (con un tasso di crescita del 20% annuo a partire dal 2000) ha spinto la Commissione a condurre un’indagine settoriale ad ampio spettro sul funzionamento e sulle pratiche commerciali più diffuse nel commercio elettronico e che investono principalmente i rapporti “verticali” tra produttori o titolari dei marchi e i rispettivi distributori o licenziatari.

Le risultanze dell’indagine, pubblicate nel Maggio 2017, hanno indicato l’imposizione di prezzi di rivendita minimi e le pratiche di geo-blocking – ovvero l’utilizzo di quelle tecniche che permettono di bloccare o reindirizzare il consumatore su un determinato sito web a seconda del suo luogo di residenza risultante dall’indirizzo IP o dai dati inseriti per il pagamento – come particolarmente pericolose per la concorrenza intra-brand e per l’obiettivo del Singolo Mercato.

Tra l’altro, la pericolosità di queste condotte sarebbe rafforzata dall’impiego di nuovi software e tecnologie (algoritmi e AI) grazie ai quali il produttore/licenziante può monitorare in tempo reale grandi quantità di dati e fare eseguire gli accordi (ad es. quelli sul prezzo) in modo pressoché automatico, con pochi o nessun margine di discostamento per il distributore.

Quali sviluppi sono prevedibili?

Con le indagini individuali qui menzionate la Commissione e l’Autorità italiana hanno voluto compiere attività concrete di enforcement delle risultanze dell’indagine settoriale, iniziando dalle pratiche la cui repressione ritengono prioritaria.

È prevedibile, ed in effetti esistono già vari segnali, che a queste indagini se ne aggiungano altre riguardanti condotte che la Commissione, nell’indagine settoriale sull’e-commerce, ha indicato come problematiche per la concorrenza e il Singolo Mercato.

Tra queste condotte in particolare vi sono: l’imposizione da parte dei produttori di criteri selettivi per l’ammissione alla loro rete di distribuzione (che sarebbero validi solo uniformi, non discriminatori e indispensabili per preservare la qualità dei prodotti/servizi); il divieto di vendere o pubblicizzare i prodotti su piattaforme terze di marketplace (come Amazon) o di comparazione prezzi (su cui si pronuncerà a breve anche la Corte di Giustizia, v. qui); le clausole di miglior prezzo garantito (su cui esistono già pronunce e regole specifiche nel settore delle prenotazioni online, v. qui); e quelle che limitano la possibilità di acquistare determinate parole chiave per il posizionamento sui motori di ricerca (cd patti di non-brand bidding negative matching).

Infine, di recente la Commissione ha raggiunto un accordo con il Parlamento e il Consiglio europeo su una proposta di Regolamento che nella maggior parte dei casi vieterebbe agli operatori di siti di e-commerce di utilizzare tecniche di geo-blocking (cioè di blocco dell’accesso ai siti internet sulla base del luogo di residenza del consumatore), tramite cui si impedisce ai consumatori domiciliati in uno Stato europeo di comprare online beni offerti in altri Stati europei (v. qui).


[1] Nella UE, solo le autorità di Francia, Germania e Regno Unito avevano mostrato, peraltro sporadicamente o solo negli anni più recenti, una qualche attenzione a queste pratiche nel commercio online, sanzionando o imponendo rimedi ai produttori che limitavano, contrattualmente o di fatto, la libertà dei propri rivenditori di vendere online o di stabilire il prezzo di rivendita.

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